TROPPO PICCOLO PER ANDARSENE
PRISON CHRONICLES / 2017
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Sono nato a Kairouan in Tunisia, un paese al centro della Tunisia. È un paese con una grande e rinomata moschea e un centro storico ricco di cose antiche. Ci sono i cammelli fanno girare una ruota per pompare l’acqua da sottoterra che poi va in una cisterna e viene offerta ai turisti. A Kairouan ci sono 2000 abitan- ti. Alcuni fanno gli agricoltori, altri tessano i tappeti, ci sono poi fabbriche di camion, di dolci, di sigarette, di vestiti, che impiega- no sia persone del mio paese che quelli vicini. Molti europei han- no investito in Tunisia e danno così lavoro ai locali. In periferia c’è un grande parco divertimen- ti molto conosciuto. La mia fa- miglia è composta da mamma, papàe7figli.4femminee3 maschi. Il papà ha un cavallo ed un carretto e va per le case, quando viene chiamato, per tra- sportare merci. La mamma tesse i tappeti in casa. Tre fratelli, due femmine ed un maschio, sono più grandi di me e i tre più pic- coli vanno ancora a scuola. Non ci sono mai stati tanti soldi nella mia famiglia, ma abbiamo sem- pre avuto la possibilità di man- giare. Sono andato a scuola per 4 anni e poi l’ho abbandonata per andare a lavorare. Verso i 10 anni ho iniziato a lavorare come idraulico per raccogliere un po’ di soldi che mi permettessero di venire in Italia. I miei genitori non sapevano nulla dei miei pro- getti. Nascondevo i soldi e non li davo in casa. Quando mio padre mi chiedeva conto dei soldi che guadagnavo, io raccontavo di comprare dei vestiti, andare dal barbiere, ecc... Dopo due anni, quando ne avevo 14, avevo rac- colto quasi mille dinari (500€). Attraverso un mio amico ho co- nosciuto uno che faceva lo scafi- sta, era un tunisino, gli ho chiesto di partire in Italia. Lui avrebbe parlato con un altro scafista per farmi imbarcare. Aspettavo una telefonata sul cellulare del mio amico vicino di casa per sapere quando e da dove sarei partito. Dopo circa 2 settimane la telefo- nata è arrivata e dovevo raggiun- gere Suax, un paese sul mare. Distava 150km da casa mia. Ho preso un autobus al mattino, era forse mezzogiorno. Era estate, ma non ricordo più il mese... Sono arrivato a Suax verso le 18 e alla fermata dell’autobus c’era una macchina ad aspettarmi, gui- data dallo scafista che mi avreb- be portato a Lampedusa. Sono rimasto 2 settimane a casa dello scafista assieme ad altre 66 persone aspettavano come me, di imbarcarsi per raggiungere l’I- talia. Dormivamo tutti per terra in 3-4 stanze della casa. Il cibo veniva preparato da uno per ogni stanza, che poi entrava e lo distri- buiva. La consegna dello scafista era di non farci vedere troppo in giro, per non far insospettire la polizia. Solo 2 di noi eravamo minoren- ni: io ed un altro ragazzo. Mentre ero lì non potevo pensare a niente, c’erano sempre litigi tra coloro che aspettavano di imbar- carsi. Erano tunisini ed algerini. Litigavano per lo spazio dove dormire (perché non c’era), per il bagno che ce n’erano soltanto 2. Spesso venivano alle mani. Erano tutti maschi, c’era solo una ragazza giovane di 21 anni. All’inizio avevo paura , ma poi ho capito che non mi avrebbero fatto del male. Trascorrevamo giorno e notte in questa casa am- massati come i topi in mezzo alla sporcizia. Lo scafista veniva a controllare 2 volte a settimana. Quando ho è arrivato il giorno della partenza ho avuto paura! A mezzogiorno lo scafista è venuto ad avvertirci che saremmo parti- ti quella notte. Nel pomeriggio è arrivato il contrordine perche era nnunciato maltempo. A mez- zanotte del giorno successivo si sono fermati davanti alla casa 3-4 furgoni che ciu hanno caricati e ci hanno portati vicino alla spiag- gia dove siamo stati scaricati. Era mezzanotte, non si vedeva niente e il mare era così nero da sem- brare minaccioso. Avevo paura e pensavo che saremmo morti tutti. Non mi è mai venuta la tentazio- ne di tornare indietro.. La barca dove siamo saliti era in legno e andava a motore. Molti di noi hanno potuto sedersi sul fondo della barca e quelli in poppa sono rimasti in piedi. Vicino a me era- no sedute le persone che avevo conosciuto meglio. Ognuno però pensava a se stesso perché cre- do che il denominatore comune fosse la paura. Il viaggio è durato 9 ore, avevamo da bere e faceva tanto freddo. La barca era priva di tutto! Non c’erano certo i sal- vagente. Le prime ore avevo tan- ta paura e pregavo di non morire nell’attraversata. Poi un tunisino che sedeva vici- no a me mi ha dato una pastiglia (che non ho idea che cosa fos- se)e mi ha detto che con quella mi sarebbe passata la paura. Mi sono addormentato e mi sono ri- svegliato quando ormai eravamo vicino alle coste italiane. Non sa- pevo dove eravamo. L’ho capito solo una volta sceso a terra che eravamo a Lampedusa. La barca è arrivata vicino ad una spiaggia. Ci siamo dovuti buttare in acqua, che era alta. Io non sapevo (e non so) nuotare, sono stato salvato da uno che mi ha preso per un brac- cio. Ero terrorizzato... Siamo riusciti a raggiungere la spiaggia. La barca dietro di noi era riparti- ta. Lo scafista aveva guadagnato per quel viaggio 600€ a persona. Solo io ne avevo 500€. Se li era fatti dare prima di entrare in quella casa. Io ero senza docu- menti, come tutti i miei compa- gni di viaggio.. Una volta a terra è arrivata la guardia costiera. Ci hanno messi in fila, io sono stato messo con l’altro minorenne e ci hanno portati al centro d’acco- glienza. Il centro era pieno di gente che veniva da tutte le parti del mon- do. Ci venivano dato da mangia- re un panino con il formaggio. Ci hanno fatto la visita medica, poi ci hanno dato una tuta, un paio di ciabatte, un asciugamano ed un piccolo corredo di sapone, shampo, ecc... Io sono stato messo nel reparto dei minorenni. Il campo era con- trollato dalle forze dell’ordine giorno e notte. Nel campo non avevamo niente da fare, camminavamo tutto io giorno su e giù.. Gli operatori del campo avevano un rapporto molto civile con noi, si sedevano anche con poi per parlare. Sono rimasto un mese in quel centro e non ho un brutto ricordo. Un giorno è arrivata una nave che ha caricato i 25 minoren- ni del centro su di un pullmann che teneva gelosamente nascosto nella sua pancia. Noi eravamo stati avvertiti dai operatori del centro che sarebbe arrivato quel giorno. Da sempre pensavo che il mio viaggio in Italia sarebbe servito ad aiutare economica- mente la mia famiglia ed è quello che avevo detto ai miei genitori una volta sbarcato a Lampedusa. Quandohopotutochiamarliliho trovati preoccupati, non avevano più notizie dei me da diverse set- timane. La loro preoccupazione era però rimasta sapendomi in una terra straniera a soli 14 anni, ma io avrei dimostrato a loro che pure se piccolo mi sarei saputo far carico dei loro problemi e avrei mandato a casa i soldi gua- dagnati con il lavoro. Quando la nave ha lasciato Lampedusa per attraccare al porto di Agrigento, io pensavo che lì avrei potuto iniziare la mia vita e realizza- re il mio sogno. Però una volta sbarcati mi sono reso conto che il viaggio continuava. Siamo ar- rivati a Messina e ci hanno im- barcati su di un traghetto che ha proseguito il viaggio alla volta di Catanzaro. E’ stato un viag- gio lunghissimo o almeno a me è parso così. A Catanzaro siamo stati accolti in una comunità molto grande. Dopo aver mangiato siamo subito andati a riposare, eravamo stanchi! Avevo fatto amicizia con i ragazzi che, come me, venivano da Lampedusa e restavamo sempre insieme. Lì’ giocavamo a pallone, a dama e così i giorni passavano, ma dopo circa 2 settimane un altro pullman ci ha caricati per por- tarci a Castellamare di Sabbia in Campania. Eravamo 25 ragazzi, avevo perso alcuni compagni ve- nuti con me da Lampedusa. Ero arrivato a non pensare a niente, facevo quello che mi dicevano di fare. Arrivato a Castellamare sono stato accolto in un’altra co- munità. Il pullman ha lasciato lì solo una parte del suo carico di ragazzi. Siamo scesi solo in 8 e non so gòli altri che destino ab- biano avuto, in quali comunità siano stati portati. Nella nuova comunità ho trovato ragazzi e ragazze anche di nazio- nalità italiana. Ricordo che uno di loro era lì perché aveva spac- ciato droga; io allora non sapevo nemmeno che cosa fosse. Nell’anno e mezzo in cui sono rimasto in quel centro andavo a scuola, alle 20 mi portavano a fare la partita di calcio con altri ragazzi; ero abbastanza bravo come attaccante e mi piaceva molto giocare. Ogni sabato e domenica si usciva a mangiare la pizza con gli ope- ratori. Per un anno e mezzo sono stato bene, ma mi sentivo molto solo, così nel 2013 ho deciso di andare a Milano da mio cugino che ave- vo contattato e che era disponibi- le ad ospitarmi. Lui era in Italia da solo, aveva molti amici, tutti miei compaesani, aveva un la- voro ma non era regolare perché gli mancava il permesso di sog- giorno. A Milano ho cominciato a girare per le strade, a conosce- re gente più grande con la quale passavo le giornate, mentre mio cugino faceva i fatti suoi. Subitononavevocapitochetipo di persone mi giravano intorno, all’inizio mi dimostravano ami- cizia, non mi facevano sentire solo, con loro potevo parlare la mia lingua, mi offrivano da man- giare e da bere senza chiedermi nulla in cambio. Mi ero illuso di aver trovato una nuova famiglia, anche se un po’ diversa. Troppo presto però mi sono ac- corto che mi stavano usando, ap- profittando del fatto che ero pic- colo e spaesato. Non conoscevo nemmeno bene l’italiano e tanto meno l’Italia e le sue regole. Ho cominciato a fare uso di cocaina che mi davano loro a 17 anni. Poi hanno cominciato a dirmi che dovevo venderla. Io sono stato stupido e ci sono ca- scato! Il mio progetto di lavorare per mandare soldi a casa non si è realizzato... sono cascato pri- ma! In quel periodo avevo cono-sciuto una ragazza rumena di 18 anni che studiava a Como, l’ho frequentata e le ho voluto bene, ma poi il carcere ha interrotto la nostra relazione. Penso di aver continuato questa vita per vivere bene, illudendomi che avrei mandato tanti soldi a casa, cosa che però non ho mai fatto. Non pensavo nemmeno che un giorno mi avrebbero fermato! Le preoccupazioni per la mia famiglia, che mi avevano porta- to a scappare dalla mia terra di nascosto da tutti, anche dai miei genitori, sembravano scomparse. Quelli più grandi mi avevano in- trodotto nel mondo della droga e io avevo perso tutti quei valori con i quali ero partito e che ave- vo appreso da una famiglia pove- ra, ma onesta. Ho capito che ero troppo picco- lo per affrontare senza punti di riferimento positivi e senza nes- suna protezione, un mondo che non conoscevo e che nascondeva tanti pericoli. Il 9 gennaio 2014 ero davanti alla stazione, molto ubriaco. Sono arrivati i car5abi- nieri e mi hanno portato in ca- serma per prendere le impronta. Arrivato in caserma mi hanno detto che avevo un mandato di cattura per rapine e spaccio. Mi hanno portato in carcere a Mi- lano. Sono stato condannato a 5 anni e 9 mesi e sto attualmente scontando quella pena. Ero stato ammesso in una comunità di re- cupero, per una misura alternati- va, ma sono fuggito. Nemmeno li stavo bene, vivevo solo di terapie e così, una mattina verso le 7 ho deciso di scappare per andare in Germania. Lì ci sono degli amici, certo che non sapevo neanche lì cosa mi aspettava... Ho preso il treno per Bolzano. Sono sceso e ho continuato prendendo il treno che portava al Brennero. Quan- do è salita la polizia sono stato nuovamente arrestato e portato nel carcere di Bolzano.. Non sono stato aiutato neanche dall’osservazione religiosa che vieterebbe l’uso di alcool e dro- ghe. Non prego, non faccio il ra- madan... pregherò quando sono vecchio, adesso vivo! In carcere sono solo, chiamo i miei genitori ogni 15 gior- ni. Quando hanno scoperto che sono in carcere si sono arrab- biati. Sono il primo figlio che finisce in carcere. Qui adesso lavoro, frequento il corso di te- atro e scrivo per il giornalino. Sono stanco di questa vita fatta di carcere ed errori. Capisco di aver sbagliato tanto, soprattutto a seguire quella gente. Quando uscirò voglio lavorare, ho un’u- nica certezza: non tornerò mai più a Milano. Potrei tornare in Tunisia... Se resto in Italia devo fare i con- ti con il permesso di soggiorno scaduto. Mi piacerebbe fare l’i- draulico, vorrei specializzarmi un po’ in questo settore. Quando penso ad un posto in Italia nel quale vorrei tornare, penso alla Sicilia, dove ho trovato gente accogliente che non mi ha fatto sentire diverso. Adesso sto facen- do il barbiere, un lavoro che ho imparato in carcere. Mi fa star bene occuparmi di questo lavo- ro... i tagli mi vengono sempre meglio e i miei compagni di de- tenzione sono contenti. Con i soldi che mi passa l’amministra- zione mi compero le sigarette e qualche cosa da mangiare. Se po- tessi tornare indietro non verrei in Italia così da piccolo. Mi sono mancate le persone oneste capaci di dirmi cosa era giusto e cosa era sbagliato. Mi è mancata una gui- da adulta. Ho trovato l’Italia un paese difficile per vivere da soli e senza documenti, trovando come rifugio le case abbandonate. Una terra molto diversa dal mio paese. Mi accorgo di non voler ancora fare progetti veri perché il “f.p.” è ancora lontano. Cerco di vive- re giorno per giorno senza trop- pa ansia. I giorni trascorrono una volta tristi e una volta allegri, di- pende da tante piccole cose che vanno dalla finestra della cella che viene aperta, dal letto di un compagno che viene sistemato, a tante altre piccole cose. A vent’anni non ho grandi sogni come altri miei coetanei. L’unico mio sogno è di uscire di qui... tornare libero e iniziare un altro progetto di vita, lasciando alle spalle il carcere!
RORHOF