PRISON CHRONICLES / 2006 I N.0
CARCERE UN MONDO A PARTE
Vittorio
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No, non è un collegio per bambini cattivi. La vita nei reparti (braccio sezioni, che dir si voglia) è durissima. Edifici, per la maggior parte fatiscenti, che contengono esseri umani con le loro storie più o meno disperate. Un mondo a parte del quale molti sanno poco o nulla –e molti nulla vogliono sapere- ma che pone domande e chiede aiuto. Mondo complesso quello del carcere, fatto di leggi scritte e non scritte. Un mondo che una certa cultura del disinteresse ha mantenuto lontano dalla società. Occuparsi dell’emergenza del sovraffollamento dei penitenziari può apparire, agli occhi della società (persone perbene), un impegno inutile e dispendioso (più utile spendere milioni di euro per missioni di “pace”). Si è parlato per mesi di indulto, amnistia, per mettere un freno al problema. È stato concesso e non ha portato a nessun miglioramento.
Circa il 70% del totale della popolazione detenuta è in carcere per reati legati alle droghe (traffico e tossicodipendenza), molti dei quali affetti da malattie tipo epatite aids e tbc. Una buona parte di essi nemmeno lo sanno. Inoltre (il 50% circa) hanno figli con i quali (in troppi casi definitivamente) hanno spezzato una relazione. La vita è dura: il sovraffollamento, la convivenza forzata in spazi ristretti e il rapporto spazio-tempo della logica penitenziaria provocano tensioni e disagi sia sanitari che psicologici. Ogni giorno in queste celle “abbellite” da foto alle pareti (ricordi di giorni felici, ritratti di figli e mogli) fai i conti con il passato: errori e sensi di colpa. E con il presente: la lontananza degli affetti, la paura di non riuscire a riaggiustare la propria vita. E tutti o quasi, ci porteremo “fuori” un’eredità di instabilità e fragilità psicologica che ti fa dire: la galera per quello che ho fatto, l’avevo messa nel conto. Quello che non mi meritavo è il manicomio. Paura e senso di colpa per aver abbandonato la cura della famiglia, la negazione dell’amore, l’impossibilità di esprimere i propri sentimenti, la difficoltà di sopravvivere in una struttura che annulla la dignità e dove la speranza in progetti di reinserimento e di un futuro dignitoso è ridotta al lumicino. Qualcuno ce la fa e riesce a ricostruirsi una vita. Dipende dalle esperienze, dalle opportunità che vengono offerte, dalle persone che si incontrano e si frequentano, dalla forza di volontà.
Violare l’impermeabilità del carcere significherebbe, in ultima analisi, riportare ai detenuti un senso di quotidianità e di familiarità che permetterebbero di accettare con maggiore serenità la pena. La società dovrebbe imparare, che dietro queste sbarre non ci sono mostri ma persone. E pure io!
RORHOF